La Proof of Stake è decentralizzata? O conduce invece, inesorabilmente, alla centralizzazione? Ed è meglio o peggio rispetto alla Proof of Work, e ad altri meccanismi più o meno innovativi? In breve: un certo livello di centralizzazione è a mio parere inevitabile in qualunque blockchain per via di motivazioni psicologiche e pratiche, ma la PoS non è peggio della PoW. In questo articolo proverò a esporre perchè penso che la Proof of Work è decentralizzata almeno quanto la Proof of Work.
Perchè la decentralizzazione è importante?
Se chiedete a un appassionato della tecnologia blockchain cosa gli piace di questo universo, le risposte tendono ad essere due: decentralizzazione e disintermediazione. (L’anonimità, tanto sbandierata dai media mainstream come unica ragione del successo di Bitcoin, è in realtà più in basso sulla lista).
Il potere di blockchain sta nel permettere di effettuare transazioni che eliminano la necessità di fiducia nella controparte, senza prevedere un intermediario. Gli intermediari sono costosi, possono commettere errori, possono comportarsi in modo ingiusto o illegale -eccetera. Il mondo blockchain permette esattamente di disfarsi degli intermediari. A patto ovviamente che il codice della blockchain sia ben scritto, diventano superflui: io non ti conosco, ma posso serenamente inviarti una certa quantità di denaro avendo la certezza che ti arriverà, con la possibilità di visualizzare la transazione in qualunque momento con due click -anche anni dopo.
Di conseguenza, la decentralizzazione è la cosa a mio parere più importante e rappresentativa della blockchain, e ciò attorno a cui è nato Bitcoin. In particolare, la limitazione del monopolio del sistema finanziario -idea prevista nel whitepaper originario di Bitcoin. Certo, non tutte le blockchain necessitano o sono costruite attorno alla decentralizzazione: possiamo menzionare ad esempio VeChain. VeChain nasce per essere utilizzata in ambito B2B, non B2C, e quindi la centralizzazione diventa inutile e anche dannosa. Ma la maggior parte delle blockchain hanno la centralizzazione al loro cuore.
La PoS ha sempre più successo
Come sappiamo, Bitcoin fu la prima blockchain ad essere creata. E’ costruita su un sistema chiamato Proof of Work, che diventò rapidamente lo standard per tutti i token nati da lì a poco, cloni come Litecoin o progetti più originali. La Proof of Work prevede che esistano dei miner (minatori), che mettono a disposizione il loro potere computazionale per effettuare operazioni in grado di certificare la correttezza di ciascuna transazione. Senza dubbio, la Proof of Work garantisce un sistema molto efficace, ma con gravi problemi di efficienza (e quindi ridotte transazioni per secondo) che hanno storicamente creato enormi problemi di commissioni.
La Proof of Stake, invece, prevede che le transazioni vengano approvate dai validatori, che sono utenti che possiedono grandi quantità del token in questione (parliamo più nel dettaglio della PoS qui). Il ragionamento fondamentale è che un utente che possiede molti token voglia far funzionare al meglio la blockchain. Autorizzare ad esempio operazioni che hanno lo scopo di attaccare la blockchain stessa dovrebbe essere un problema inesistente, dato che lui stesso ci perderebbe.
Grazie all’enorme agilità rispetto alla PoW, la PoS ha preso sempre più piede, al punto che anche un token storico come Ethereum ha deciso di passare alla PoS. Un’operazione rischiosa, ma necessaria, data l’impossibilità ad usare la blockchain per via delle sue commissioni elevatissime.
La PoS è decentralizzata?
Abbiamo visto che la PoS mette in mano le decisioni agli utenti che detengono la maggior quantità di token. Va ora fatta una precisazione. La stragrande parte delle blockchain basate su PoS permette la delegazione: chi possiede una piccola quantità di token può delegare il suo diritto di voto a un pool più grande. In modo molto simile, nella Proof of Work, un minatore piccolo può offrire il suo hash a un pool.
La delegazione, quindi, concentra una quantità di token maggiore nelle mani di una quantità di nodi minore.
Questo è necessario per dare una ragione ai piccoli investitori di detenere il token. Allo stesso tempo, però, crea nodi estremamente potenti -centralizza, effettivamente, il potere decisionale. Ciascun progetto ha poi barriere in campo per limitare l’incentivo all’estrema centralizzazione, ovviamente, ma rimangono barriere psicologiche più che reali. Prendiamo Ethereum 2.0, dove per essere un full node sono necessari 32 ETH. Nel caso (assurdo) in cui solo 10 utenti decidano di detenere 32ETH o più, questi 10 controllerebbero de facto la blockchain.
Quindi abbiamo visto che la PoS conduce alla centralizzazione. E la PoW, invece? Ecco qui un grafico tratto da blockchain.com
Come possiamo vedere, 4 pool controllano oltre la metà dell’hash power totale. Ma perché?
Effettuare mining di Bitcoin è un’operazione per pochi eletti. Per avere anche solo una piccola speranza di ottenere la ricompensa, infatti, è necessario avere moltissimo potere computazionale; non è più sufficiente un portatile. Sono quindi nati dapprima centri di mining in Paesi con bassi costi dell’elettricità, e progressivamente pools sempre più grandi che raccolgono l’hash power.
La Proof of Stake è decentralizzata? Alternative
In questo momento, Proof of Stake e Proof of Work rimangono i due sistemi fondamentali. La Proof of Work meno efficiente e più testata, la Proof of Stake ancora tutta da scoprire.
Esistono alcune alternative che provano ad andare in due direzioni opposte.
Un esempio di PoS portata al limite della centralizzazione è ad esempio Polkadot, che funziona tramite Proof of Authority. In questo modello, i validatori sono scelti dai creatori della blockchain stessa. Hanno un nome e un cognome: non è possibile diventare validatori solo detenendo quantità molto grandi del token. In queste blockchain, si sostiene che la decentralizzazione è dannosa e inefficiente e si prova a prendere l’approccio contrario. E, a giudicare dal successo della Binance Smart Chain e della conseguente impennata di BNB, il mercato sembra almeno essere interessato a questa possibilità.
All’estremo opposto abbiamo invece token che cercano di eliminare ogni incentivo all’accumulo di eccessive quantità di token. Come? Non dando alcun tipo di ricompensa, né per il mining e né per lo staking. Un’esempio è NANO, una cryptovaluta dove le transazioni sono gratuite e non esistono né minatori, né validatori. Soluzioni del genere, pur estremamente affascinanti, hanno contro di loro la mancanza di interesse economico ad “investire” nel token e il rischio di attacchi spam. Sono soluzioni non testate, e forse troppo avanti per questo tempo, in cui il mondo blockchain è visto dai più solo come speculativo.
Conclusione: la Proof of Stake è decentralizzata?
La Proof of Stake è decentralizzata? No. La PoS tende ad accentrare la proprietà dei token nelle mani di pochi validatori, a cui vengono poi delegati ancora più token da parte dei piccoli investitori. Quindi, in modo naturale, i numeri tenderanno ad aumentare.
Allo stesso tempo, però, nemmeno la Proof of Work è decentralizzata. Ha al contrario lo stesso problema: tende ad essere sempre più accentrata, per la ricerca di efficienza energetica.
Entrambi i modelli sono vittime della teoria dei giochi: detenere una cryptomoneta o un’operazione di mining ha un’utilità crescente in modo più che lineare rispetto alla quantità detenuta. Di conseguenza, un investitore neutrale rispetto al rischio tenderà ad accentrare sempre di più token o hashrate.
A mio parere, questo è uno dei grandi limiti correnti del mondo blockchain. Ne tradisce la filosofia. Quale utilità può avere una blockchain centralizzata? Cosa la rende migliore di una banca? Cosa impedisce a chi la “possiede” (leggasi controlla) di aumentare le commissioni di trasferimento, esattamente come farebbe una banca? Ed è per questo che rimango estremamente interessato ai progetti che provano a sfuggire a questa forzosa centralizzazione.
Disclaimer: il contenuto dell’articolo è un’opinione, e ha unicamente fini informativi. Non intende fornire consulenzia finanziaria di alcun tipo. Consulta un professionista certificato per ottenere consulenza finanziaria.
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